Coscienza |
(1) Nell'800 la psicologia sperimentale si identifica con lo studio dei processi mentali coscienti. Quando W. James definì la psicologia come la scienza della vita mentale, ciò che realmente intendeva era la vita mentale «cosciente». Praticamente tutti coloro che si occupavano di quelli che oggi chiameremmo processi cognitivi erano convinti che per capire la vita mentale fosse necessario dare una spiegazione della coscienza. H. von Helmholtz, F. Galton e gli appartenenti alla cosiddetta scuola di Wiirzburg si erano però già resi conto che molti processi mentali si svolgono al di fuori della coscienza. Basti pensare alle «inferenze inconsce» di Helmholtz. Tuttavia, nei primi anni del '900 si verificò una svolta radicale, in particolare per impulso di I. Pavlov e J. Watson, che addirittura negarono che si potesse affrontare con metodo scientifico il problema della coscienza. Secondo loro, solo il comportamento e il cervello possono essere osservati direttamente e perciò essere oggetto di indagine scientifica. Il comportamentismo, in particolare, negò che si potessero indagare scientificamente gli aspetti coscienti della vita mentale. Non va però dimenticato che lo studio della coscienza continuò in settori della psicologia diversi dalla psicologia sperimentale. È noto che la contrapposizione fra processi mentali consci e inconsci sta alla base della psicoanalisi, dello studio dei sogni e dello studio dell'ipnosi. Si tratta però di settori che non riguardano i processi cognitivi. Un'altra svolta radicale, ma in senso contrario, si verificò nella seconda metà del '900, quando lo studio sperimentale dei processi cognitivi dimostrò che, come già avevano proposto Helmholtz e Galton, la maggior parte di tali processi si verifica al di fuori dell'esperienza cosciente. Le prime ricerche riguardarono il cosiddetto apprendimento accidentale, cioè l'apprendimento che si verifica in assenza di esperienza cosciente. Queste ricerche, tuttavia, erano inficiate da gravi problemi metodologici che rendevano possibile il dubbio sulla reale «in-cidentalità» dell'apprendimento e sulla reale assenza di coscienza. Soltanto quando il problema della coscienza fu affrontato, assieme a quello dell'attenzione, da studiosi autorevoli nel campo della psicologia sperimentale classica il problema della coscienza riacquistò una posizione centrale nello studio dei processi cognitivi. Gli studi più interessanti sono quelli che vengono di solito indicati come studi di percezione subliminare. In essi, gli stimoli che l'osservatore deve processare sono presentati in modo che non raggiungano un livello cosciente. Per esempio, nelle ricerche di stimolazione dicotica, agli osservatori sono presentati simultaneamente due messaggi (spesso, due liste di parole), uno a un orecchio e l'altro all'altro orecchio. Il compito consiste nel dirigere l'attenzione su un orecchio e ripetere ad alta voce il messaggio udito. Successivamente, all'osservatore sono poste domande relative al messaggio presentato all'orecchio al quale non ha prestato attenzione e risulta che egli non è in grado di riferire le parole presentate. Non è neppure in grado di stabilire in che lingua fossero. In alcune ricerche molto dimostrative venne prodotta preliminarmente negli osservatori una risposta psicogalvanica condizionata a certe parole, associandole sistematicamente a una lieve scarica elettrica. Quando la risposta condizionata si era stabilita, l'ascolto della parola condizionata provocava la risposta psicogalvanica anche in assenza della scarica elettrica. Poi, nell'esperimento di stimolazione dicotica, le parole condizionate, mescolate casualmente ad altre parole neutrali, vennero presentate all'orecchio al quale l'osservatore non prestava attenzione. Ovviamente, il compito consisteva nel ripetere a voce alta le parole presentate all'orecchio sul quale era diretta l'attenzione. Gli osservatori non erano coscienti delle parole presentate all'orecchio opposto, tuttavia le parole condizionate producevano la risposta psicogalvanica. Anche parole diverse da quella condizionata, ma ad essa semanticamente relate, producevano la risposta psicogalvanica. Questo risultato dimostra, dunque, che parole non percepite a livello cosciente sono processate fino all'estrazione del significato. Un problema che ha suscitato molto interesse riguarda le possibili caratteristiche differenziali del processamento conscio rispetto a quello inconscio. Una volta stabilito che il processamento inconscio esiste, e che è completo - ovvero si svolge fino al livello semantico -, diventa interessante chiedersi se esso è simile al processamento cosciente. Infatti, l'esistenza di differenze qualitative tra il risultato del processamento cosciente e il risultato di quello inconscio costituisce uno dei criteri principali, forse il principale, per dimostrare l'esistenza del processamento inconscio. A. Marcel (1980) ha affrontato questo problema con l'impiego di un compito di decisione lessicale con facilitazione semantica. All'osservatore vengono presentate due parole in successione, e poi una striscia di lettere per la quale è richiesta una decisione lessicale, cioè è necessario decidere se si tratta o no di una parola. Per esempio, si presenta prima la parola «pane», poi la parola «vela» e infine la parola «gatto» (oppure, al posto di «gatto» si presenta una non parola come «gutto»). Si tenga presente che la decisione lessicale è più rapida (facilitazione) quando la parola per la quale è richiesta la decisione lessicale è preceduta da una parola a essa relata semanticamente (se, per esempio, «gatto» è preceduto da «cane» invece che da «vela»). L'aspetto cruciale dell'esperimento di Marcel è che la seconda parola è ambigua (può avere, cioè, più significati) e viene disambiguata (un solo significato è messo in rilievo) dalla prima parola. In inglese la parola «bank» è ambigua perché può indicare sia la riva di un fiume che una banca. Le sequenze «save»-«bank» e «water»-«bank» sono disambiguanti, in quanto la prima seleziona il significato di banca e la seconda seleziona il significato di riva. Nell'esperimento, si presenta la seconda parola nelle sequenze «save»-«bank»-«money» e «save»-«bank»-«river» per 500 ms, in modo perfettamente percepibile dall'osservatore (processamento cosciente), oppure per io ms e mascherata, in modo che non sia percepibile dall'osservatore (processamento inconscio). Nel caso del processamento cosciente, un unico significato di «bank», quello di banca, è attivato e si ha facilitazione, nella decisione lessicale, solo per la parola «river». Nel caso del processamento inconscio, invece, entrambi i significati di «bank» sono attivati e si ha facilitazione, nella decisione lessicale, sia per «money» che per «river». E possibile che una parola ambigua, processata a livello cosciente, produca un processo di ricerca nel lessico guidato da un solo significato, quello appropriato al contesto (fornito, in questo esperimento, dalla parola disambiguante). Invece, la stessa parola ambigua, processata a livello inconscio, attiva in modo automatico tutte le parole vicine, nel lessico, ai suoi diversi significati. M. Posner (1978) ha proposto che, indipendentemente dalle condizioni di presentazione (tempo di esposizione breve o lungo, mascheramento presente o assente), il processamento cosciente richieda un certo tempo (almeno 250 ms) per iniziare. Perciò, nei primi 250 ms successivi alla presentazione di uno stimolo (una parola, negli esempi appena fatti), il processamento è inconscio anche se le condizioni di presentazione sarebbero tali da produrre una percezione cosciente. Successivamente, intervengono i processi di selezione attentiva, e il processamento diventa cosciente. In altre parole, il processamento cosciente richiede l'intervento dell'attenzione selettiva e l'attenzione selettiva richiede tempo per manifestare i suoi effetti. Di conseguenza, il processamento cosciente inizia con una latenza stimabile in circa 250 ms. CARLO UMILTÀ
Coscienza (2) Il concetto di «coscienza» è polisemico. Nel suo uso ordinario, una persona si dice «cosciente» se è consapevole delle proprie percezioni, pensieri, sentimenti, volizioni. Questa accezione del termine coincide con la nozione neuropsicologica di vigilanza, funzione che viene meno fisiologicamente nel sonno ed è patologicamente disturbata nello stupor e nel coma in quanto riduzioni dello stato di veglia. La nozione di coscienza qua vigilanza si discosta dal suo significato poiché non è una semplice «funzione» dell'essere, ma la sua stessa organizzazione, e l'oggetto del sapere psicopatologico è propriamente la «disorganizzazione» dell'essere cosciente. In italiano la parola «coscienza» si riferisce sia alla coscienza teoretica sia a quella morale. Il primo significato mette in luce il conoscersi, il secondo il giudicarsi. Questa omonimia è il riflesso della stretta connessione che le filosofie dell'interiorità riconoscono tra l'accesso privilegiato a se stesso che ciascuno di noi avrebbe tramite la coscienza di sé teoretica e la possibilità di autogiudicarsi. Di fatto, a ciascuno di questi significati corrisponde un campo di indagine filosofica e psicopatologica: da un lato, il campo di coscienza in cui si danno e si organizzano le esperienze, dall'altro la sfera dei valori dalla quale prendono le mosse le azioni in cui si articola l'esistenza. Nel primo ambito, lo studio della coscienza consiste nell'analisi della corrente di esperienze vissute (l'attualità del vissuto) alla ricerca del modo in cui la coscienza stessa si appropria delle esperienze, cioè costituisce il proprio campo di esperienza. Nel secondo, l'indagine ruota attorno alla struttura dei valori della persona, cioè alla scaturigine del suo modo di essere al mondo, di atteggiarsi e di agire; in una parola, di progettarsi nel mondo. H. Ey (1983) fa di questi ambiti due distinti capitoli della psicopatologia: la «destrutturazione» del campo di coscienza (di cui fanno parte, ad esempio, gli stati confuso-onirici, oniroidi e maniaco-depressivi) e l'«alienazione» della persona rispetto a se stessa e al suo mondo (di cui fanno parte, ad esempio, le psicosi schizofreniche). Il termine «coscienza», inoltre, viene usato sia per designare la coscienza orientata verso il mondo esterno (coscienza fenomenica), sia in riferimento alla coscienza di sé (autocoscienza). La coscienza, come insegna la fenomenologia, è sempre coscienza di qualcosa. La coscienza non si dà come un contenitore vuoto, ma sempre come orientata, rivolta («attenta») a un oggetto. Ciò è vero sia che l'oggetto a cui si rivolge la coscienza si dia nello spazio esterno (come ad es. questo tavolo), sia in quello interno (come ad es. il ricordo di questo tavolo). Tale caratteristica fondamentale della coscienza si chiama «intenzionalità». Tra coscienza fenomenica e autocoscienza non c'è opposizione, poiché ogni qualvolta si è coscienti di un oggetto si è indissolubilmente coscienti di noi stessi in quanto coscienti di quell'oggetto stesso. Toccando questo tavolo, la mano è cosciente sia del tavolo che tocca, sia di se stessa nell'atto di toccare (questo vale anche se ricordo questo tavolo: sono io a ricordarlo). Il fenomeno della coscienza fenomenica, infatti, non consiste soltanto nell'essere coscienti dell'apparizione di un oggetto esterno, ma anche nell'essere coscienti della «propria esperienza» di quell'oggetto. Essere coscienti di sé è essere consapevoli delle cose nel mondo, inclusa la propria presenza nel mondo. Essere coscienti di sé non è cogliere un Sé puro distante dall'esperienza, ma essere informato dell'esperienza nella sua modalità in prima persona, cioè, dall'interno. L'integrazione tra percezione e coscienza è la base per diventare un Sé, cioè per avere un'esperienza immediata di sé. La dissociazione tra questi due modi dell'essere coscienti (che innanzitutto e per lo più si accompagnano), come vedremo, è considerata l'essenza dell'esperienza schizofrenica. All'interno del concetto di autocoscienza si cela un ulteriore duplice significato. Abbiamo, da un lato, la coscienza di sé intesa come un costrutto, come un modo di comprendere se stesso mediato dalla riflessione. Questo aspetto della coscienza di sé, detta coscienza di sé «narrativa», è più propriamente una «conoscenza» di sé, trattandosi di un modo di raccontare (a se stessi) la propria storia, di strutturare narrativamente la propria esistenza. L'altro lato della coscienza di sé rivela una modalità di presenza a se stessi immediata, non riflessiva, non proposizionale, quindi non mediata linguisticamente, e tanto meno narrativamente. Questa dimensione della coscienza di sé primordiale è detta «ipseità». Si tratta di una coscienza di sé preriflessiva in quanto anteriore a un qualsiasi atto di coscienza riflessiva o, per così dire, del paradosso di un'autocoscienza «inconscia»: di una presenza a se stessi primaria rispetto a ogni esperienza esplicita e a ogni conoscenza tematica di sé, a ogni costruzione della propria identità. L'ipseità è dunque un'esperienza, non un fenomeno mediato che nasce dall'introspezione riflessiva. E l'essere presenti a se stessi implicitamente e tacitamente: il «sentimento di sé». Senza ipseità nessun Sé è possibile. Essa è il fondamento non solo del carattere di meità di un'esperienza, ma anche dell'esperienza di sé come soggetto che sta avendo quell'esperienza. E l'accesso diretto al Sé come soggetto di esperienza, il senso implicito di essere il fulcro delle proprie esperienze. L'ipseità, per come è qui intesa, rappresenta un fenomeno emergente primario, antecedente a qualsiasi esperienza o qualsiasi cosa di cui possiamo divenire consapevoli: è la condizione di possibilità di ogni incontro intenzionale con l'ambiente, non è mediata da alcunché di estraneo o esterno al Sé. Al centro del fenomeno dell'ipseità si trova quello della corporeità. L'ipseità è la possibilità originaria e trascendentale di provare paticamente se stessi in una carne. In tal senso, l'ipseità svolge gran parte del lavoro che Cartesio ha attribuito al cogito disincarnato: il mio percepire ciò che penso (o i miei sentimenti, o le mie emozioni) è un atto «pa-tico» essenzialmente incarnato, non un atto cognitivo o intellettuale. In quest'ultimo senso, la nozione di ipseità si avvicina a quella aristotelica di coscienza sensoriale di sé, sebbene con una sostanziale differenza. La differenza consiste nel fatto che la coscienza sensoriale di sé aristotelica, proprio in quanto fenomeno eminentemente legato all'aisthesis, è anche un fenomeno continuamente rafforzato dalla percezione - dall'esperienza di sé come soggetto delle proprie esperienze percettive. Ci si deve allora chiedere se sia possibile una psicopatologia che prescinda da un'esplicita analisi filosofica del concetto di coscienza; e soprattutto se abbia senso una psicopatologia delle psicosi senza un adeguato concetto di coscienza. La concettualizzazione della schizofrenia come disturbo della coscienza di sé fa parte del patrimonio della psicopatologia fenomenologica. Lo stesso concetto di «schizofrenia» è basato su un'ipotetica dissociazione del Sé. E. Minkowski, W. Blankenburg e B. Kimura, tra gli altri, hanno contribuito alla comprensione del disturbo basale nella schizofrenia come un disturbo della coscienza immediata di sé, cioè dell'ipseità dell'Io, ovvero della determinazione dell'Io come me stesso. Anche K. Jaspers e K. Schneider hanno posto al centro dell'esperienza schizofrenica un disturbo della coscienza dell'io, e in particolare della meità. In termini descrittivi, i cambiamenti dell'esperienza di sé nella schizofrenia includono disturbi della demarcazione io - non io («Non sono io a vedere quell'oggetto - io sono quell'oggetto»), anomalie del sentimento di unità sincronica («Io sono due persone nello stesso tempo») e diacronica («Il tempo e specialmente le mie azioni sono frammentate»); e soprattutto una perdita della meità delle proprie esperienze («Non io sono colui che ha questa percezione o compie questa azione», «Vivo la mia vita in terza persona»); infine, disturbi relativi all'esperienza della propria esistenza («La mia esistenza ha perso un suo nucleo interiore»). Nella condizione schizofrenica è la coscienza preriflessiva di sé (il rapporto intimo e tacito di sé con se stesso) a essere turbata e la coscienza riflessiva a essere, invece, accentuata. La coscienza schizofrenica avverte esplicitamente la propria posizione eccentrica rispetto a sé, al corpo e al mondo, e assume come «oggetto esplicito» la propria esperienza di sé, del proprio corpo o del proprio mondo. Il disturbo della coscienza di sé preriflessiva consiste nel fatto che un fenomeno che prima si svolgeva implicitamente ed era abitato tacitamente ora non lo è più, emergendo come oggetto esplicito di coscienza. La presenza è sbalzata fuori dalla propria assise abituale e contempla se stessa dall'esterno. Ne consegue una vita «in terza persona»: lo scollamento tra sé e sé si accompagna al vedersi dall'esterno. Una persona schizofrenica è simile a uno spettatore della propria vita. Per questo motivo, la coscienza di sé schizofrenica può evocare il topos fantascientifico dello scanner, uno spirito disincarnato, una mente avulsa da un corpo - priva, cioè, del sentimento di essere incarnato, del sentimento implicito di essere in contatto con se stesso, basato su una percezione tacita di se stesso - che contempla l'esistente, inclusa se stessa, come fosse materia fungente ma inanimata. La crisi della coscienza di sé preriflessiva è anche all'origine della metamorfosi schizofrenica che conduce alla condizione di corpi deanimati. La radicalizzazione del dualismo tra «soggetto» che contempla e «oggetto» che è concepito nella sua pura e semplice esteriorità estensiva è il fondamentale organizzatore di senso della depersonalizzazione schizofrenica. Le conseguenze di questo «fatto primordiale» sono la perdita della prospettiva dall'interno sulla propria esperienza; la percezione di sé dall'esterno come meccanismo che pensa, percepisce e agisce; l'oggettivazione dei fenomeni che accadono nel campo di coscienza; e la spazializ-zazione della stessa coscienza. Questa tendenza all'oggettivazione rappresenta, al tempo stesso, il vulnus e il telos della coscienza schizofrenica: una duplice ma identica tendenza, immanente alla coscienza di sé preriflessiva e alla coscienza morale (cioè alla struttura dei valori) della persona schizofrenica. La tendenza a questa scissione tra coscienza e materia, e tra Sé e mondo, così come la tendenza all'oggettivazione e alla spazializzazione della vita sembrano sancire, inoltre, l'isomorfismo tra la coscienza schizofrenica e la mente moderna. Le modificazioni della coscienza proprie della condizione maniaco-depressiva attingono a livelli distinti della gerarchia della coscienza di sé. Ey ipotizza che la mania e la melanconia sono disturbi acuti del campo di coscienza, destrutturazioni acute come le reazioni emotive o nevrotiche acute, le sindromi deliranti e allucinatorie acute e le sindromi confuso-oniriche; mentre la schizofrenia è annoverata tra i disturbi cronici dell'essere-cosciente (patologie della persona) insieme alle nevrosi, alle altre psicosi croniche e alle demenze. Sviluppando, invece, la via intuita da A. Tatossian (1994), si può argomentare che laddove la schizofrenia attinge a un disturbo del livello della coscienza preriflessiva (dunque fondamentalmente un'anomalia dell'organizzazione del campo di coscienza), la condizione maniaco-depressiva rimanda a un disturbo della coscienza di sé narrativa (dunque della struttura della coscienza morale). In questo senso, la condizione maniaco-depressiva è contrassegnata dall'arrestarsi della dialettica, interna all'«essere se stessi», tra Sé e «altro da sé». Secondo il modello proposto da P. Ricoeur (1990), ciascuno di noi definisce se stesso non solo in base a ciò che è già stato, ma anche in base a ciò che non è e potrebbe o vorrebbe essere. Il melanconico non vive l'altro da sé come «possibilità» verso cui protendersi, in base alla quale definirsi; viceversa, l'altro da sé è vissuto come «nulla» dal quale mettersi al riparo. Il melanconico (si veda la descrizione del typus mekncholicus fornita da H. Tellenbach e da A. Kraus) bandisce l'altro da sé da questa dialettica in quanto pericolosa fonte di «nullificazione». La doppiezza dell'essere di fronte al suo nulla è esiliata dall'esistenza melanconica, che precipita inesorabilmente nella palude dell'essere lo stesso. Il melanconico insiste concentricamente su una prospettiva finita e non scelta di possibilità con le quali si iperidentif ica, riducendo il problema, per chiunque altro sfuggente, dell'identità a una cosa, a una sostanza immutabile, a una «statua interiore». La depersonalizzazione melanconica non fa altro che rivelare al melanconico stesso l'aspetto più profondo della sua condizione vulnerabile, cioè l'incapacità di tollerare nel proprio Sé l'alterità; di integrare l'alterità nella propria identità narrativa. La coscienza moderna, dunque, si dibatte tra questi due estremi: la perdita di un aggancio ontologico forte (come l'aggancio al proprio Sé incarnato) che caratterizza la condizione schizofrenica; e l'arroccamento su una coscienza marmorizzata che, come una lapide, cala sulla dialettica tra sé e altro da sé, sigillando l'identità del maniaco-depressivo nel suo essere in eterno identico a se stesso. Si tratta, forse, di una coscienza «antica»? Nel mondo postmoderno si assiste a un pullulare di vissuti, a un flusso di esperienze frammentarie prive di quello che un tempo avremmo chiamato un Io. Viene meno l'Io inteso in senso kantiano come polo di identità che trascende le singole esperienze e le organizza spontaneamente in un tutto significativo. La «funzione sintetica» della coscienza non è più data, ma diviene un compito - un ethos, e in quanto tale non è alla portata di tutti. Le esperienze tendenzialmente si danno (possono darsi) - tanto nella patologia quanto nella fisiologia - orfane di un Io a cui sono spontaneamente riferite e prive di un principio di organizzazione narrativa. L'essere situati nel corpo.e nel mondo ha cessato di essere garanzia di identità e di stabilità, ed è diventato compito. Un compito da svolgere istante per istante, rifuggendo da qualunque definizione «solida» del proprio Sé. Non viviamo per caso in un'epoca di «identità liquida»? La patologia della coscienza, oggi, non riflette forse questa diversa configurazione della coscienza? Per la coscienza postmoderna solo ciò che è visibile ha carattere di esistente. Ciò che non si vede non esiste; esiste solo ciò che è oggetto di un discorso (e al limite sono i discorsi a creare i fatti). E il linguaggio stesso a conferire non solo significato, ma la stessa esistenza ai fenomeni, cioè la loro visibilità, i quali esistono solo in quanto la comunità in cui essi appaiono è concorde circa la loro esistenza. Qual è il vissuto di una persona che pensa di esistere solo se al cospetto degli altri? Solo se viene fatta oggetto di visione e di discorso ? Che tipo di rapporto tra sentirsi ed essere visto sottende questo vissuto ? Quasi un secolo di fenomenologia della corporeità ci aveva convinto che essere un Sé significa sentirsi incarnati, essere cioè nella propria carne intimamente in contatto con se stessi. Questa visione fenomenologica del Sé aveva mostrato il corpo come luogo originario dell'identità (e la coscienza incarnata di sé come fenomeno fondante l'identità e il sentimento di essere un Sé). Ma nella postmodernità compare una coscienza di sé diametralmente opposta, per la quale il dire e il vedere sovrastano il sentire. Il difetto del sentire può essere tale che il corpo, e la sua più possente manifestazione che è l'emozionarsi, acquista realtà solo se oggetto di un discorso. Si provano emozioni per così dire cognitivamente; per queste persone esistono emozioni che solo tramite la ragione (e non il corpo) si possono provare (e comprendere). Le emozioni prendono corpo tramite la ragione. E il Sé prende corpo tramite l'entrare in relazione con l'altro. Il Sé, che nel vuoto relazionale è allo stato gassoso, di fronte all'altro cambia di stato, diventa liquido - liquido, non solido. Solo l'essere visto conferisce sostanza al Sé, supplisce allo scarso sentire. Questa metamorfosi sociale della coscienza di sé si fa vettore di una mutazione psicopatologica che vede in primo piano, come patologia della postmodernità, i disturbi del comportamento alimentare. In maniera ancora più esplicita si potrebbe parlare di «visione pornografica» del Sé, dove il sentire (e il piacere) passa attraverso il vedere il proprio (e l'altrui) corpo in azione riflesso come in uno specchio, piuttosto che percepire immediatamente, cioè cenestesicamente, il proprio corpo (e nel proprio corpo, il corpo e il piacere del corpo dell'altro). La metafora di questa metamorfosi postmoderna della coscienza come visione pornografica del Sé può essere estesa ulteriormente: ciò che viene percepito visivamente, e non cenestesicamente, sono oggetti parziali, cioè frammenti osceni (ob-scenum, fuori dal contesto della globalità del Sé): anche a questo allude la definizione del Sé postmoderno come recettore di sensazioni. Un Sé orifizio o, ancor meglio, un Sé sessile, fatto con la sostanza eterea e rarefatta delle sensazioni - laddove con «sensazioni» si intende qualcosa di ancor più volatile ed estrinseco addirittura di un'emozione - per non dire di un sentimento. L'azione non solo è frammentata nello spazio, ma anche nel tempo in una serie di istantanee o posizioni, venendo a perdersi una delle rare epifanie di «naturalità» sopravvissute nella nostra epoca - la ritmicità. Il Sé assume sostanza attraverso diverse configurazioni visibili nel tempo e nello spazio a seconda dell'altro con il quale contingentemente entra in relazione. In questa visione pornografica del Sé, la fisiologia sembra distinguersi dalla patologia della coscienza solo in termini quantitativi. GIOVANNI STANGHELLINI
Coscienza (3) La teorizzazione filosofica e psicologica relativa al concetto di coscienza e lo sviluppo dei moderni approcci delle neuroscienze sono stati a lungo influenzati dalla contrapposizione cartesiana tra mente e corpo che vedeva l'uomo come costituito da due sostanze ontologicamente distinte e regolate da principi differenti: la res extensa, la materia, dotata di estensione spaziale, della quale fanno parte i corpi e quindi anche il cervello, e la res cogitans, sostanza inestesa, dotata dell'attributo del pensiero. Il pensiero è l'unico attributo che ci appartiene veramente, e corrisponde alla coscienza di essere una cosa, quella cosa che concepisce, afferma e nega. Nell'opera di Cartesio la coscienza occupa un posto centrale nella mente e rappresenta l'elemento fondante della definizione dell'Io («Cogito ergo sum»). Ma la coscienza non può nascere per Cartesio dalla res extensa poiché la materia non può dare origine al pensiero. Cartesio parte, infatti, dalla constatazione che gli oggetti del mondo esterno, direttamente osservabili e fisicamente identificabili, hanno prerogative completamente diverse rispetto ai contenuti mentali decifrabili solo attraverso lo sguardo interiore. L'introspezione, in questa prospettiva, sottrae gli oggetti mentali alla possibilità di essere assimilabili al mondo scientificamente conoscibile. Cervello e coscienza sono quindi due entità non spiegabili l'una con l'altra, per cui agli stati fisici del cervello non corrisponderebbero gli stati coscienti della mente. Conseguentemente, nella visione cartesiana, lo studio delle caratteristiche «meccaniche» del cervello è completamente indipendente e svincolato dallo studio psicologico relativo agli stati mentali. L'approccio dualista si ritrova anche in molti autori contemporanei, in diverse versioni. La variante più diffusa considera ancora gli eventi relativi alla mente e gli eventi relativi al corpo come stati ontologicamente autonomi e distinti, ma in qualche modo interagenti, anche se la natura lell'interazione, che per Cartesio avveniva iella ghiandola pineale, rimane non chiari-a, addirittura misteriosa, come afferma il dualismo interazionista (Popper ed Eccles, 1977). Il dualismo cartesiano e i suoi svariati adattamenti, attribuendo al mentale una realtà ontologica non riconducibile alle leggi del mondo fisico, hanno a lungo impedito che lo studio della coscienza potesse rientrare nel dominio delle scienze naturali. Anche in epoca moderna il tema della coscienza ha conosciuto diverse fortune determinate, di volta in volta, dai paradigmi dominanti in campo filosofico e/o psicologico. Agli inizi del secolo scorso, sulla scia dell'empirismo inglese, viene concepito il progetto di studiare la coscienza indipendentemente dal problema ontologico della natura della sostanza pensante. L'idea che sia possibile uno studio scientifico dei contenuti di coscienza si afferma, così, nella psicologia di W. Wundt e W. James. Wundt, considerato il padre della psicologia scientifica, impostò l'apertura del primo laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia, nel 1879, proprio sulla convinzione che, in particolari circostanze, è possibile esplorare i contenuti di coscienza finalmente considerati, in questo contesto, oggetti di osservazione scientifica. Le circostanze in cui è possibile questa ricognizione sono quelle realizzate dal metodo introspettivo che, se opportunamente applicato da soggetti esperti, viene considerato indispensabile per la valutazione degli aspetti qualitativi dell'esperienza cosciente. Il metodo introspettivo proposto da Wundt (1896) e dalla scuola strutturalista viene condiviso, come metodo di ricerca, anche da James e dalla corrente funzionalista, che individua come principale scopo della psicologia proprio la descrizione e lo studio degli stati di coscienza. In James (1890) si sente, inoltre, l'influenza dell'evoluzionismo di Darwin e Spencer nella preoccupazione di chiarire quale sia la funzione adattativa della coscienza, intesa nel suo fluire come una corrente di pensieri che, ponendosi tra gli accadimenti esterni e gli stati interni del soggetto, ha come funzione quella di guidare il comportamento sugli stimoli ambientali. In questo senso la visione di James si avvicina a quella di F. Brentano (1874), che considera come attributo principale della coscienza il suo carattere intenzionale, il suo avere un continuo e mutevole rapporto con gli oggetti esterni. Non esiste coscienza se non esiste l'oggetto verso cui gli stati mentali si rivolgono. Brentano, però, diffidava della possibilità di una descrizione scientifica della coscienza poiché, da un lato, il metodo della ricerca empirica non sarebbe in grado di catturare gli aspetti fenomenologici dei vissuti dell'esperienza cosciente e, dall'altro, il metodo introspettivo sarebbe troppo esposto a errate interpretazioni soggettive. Nonostante la forte impronta naturalistica data agli studi psicologici dalla scuola di Wundt, l'esplorazione empirica della coscienza subì paradossalmente un brusco arresto proprio quando i progressi in campo scientifico e metodologico, esigendo una sempre maggior oggettivazione delle procedure scientifiche, innescarono una ferma avversione per lo studio di quegli aspetti dell'attività del soggetto che non sono direttamente osservabili e quantificabili con le tecniche a disposizione. La nuova opzione psicologica che scaturisce da questo clima culturale, il comportamentismo, rifiuta allora l'introspezione come metodo di conoscenza, poiché indaga in prima persona aspetti mentali la cui stessa realtà viene negata da alcune versioni del nuovo paradigma teorico dominante. Lo scopo della psicologia non è più quello di spiegare ontologia e funzioni della coscienza, ma quello di studiare come sequenze di avvenimenti esterni inducono modificazioni nel comportamento secondo catene stimolo-risposta che prescindono dagli stati insondabili dell'individuo. In questa prospettiva i soli dati validi per trarre delle conclusioni teoriche accettabili sono quelli che si ricavano dall'osservazione delle varianti del comportamento direttamente osservabile e descrivibile in terza persona. La coscienza viene addirittura considerata come il «fantasma nella macchina» da estirpare per non creare illusioni che offuscherebbero il dominio indagabile della psicologia. Per un lungo periodo del secolo scorso la coscienza viene, quindi, bandita dagli studi degli psicologi, anche se in ambito neurologico i disturbi provocati dalle lesioni cerebrali cominciavano a suscitare interesse per quello che poteva essere svelato della mente dalle situazioni patologiche e, al di fuori delle scuole di psicologia, il vocabolario mentalistico cominciava a essere recuperato. Intorno alla metà del '900 le novità nel campo della cibernetica e dell'intelligenza artificiale contribuirono a un cambiamento di paradigma in ambito psicologico, aprendo la strada all'approccio funzionalista-computazionale che caratterizzerà la scienza cognitiva. Secondo l'orientamento classico della scienza cognitiva, preoccupato di dare un resoconto delle funzioni mentali nei termini dell'analogia con il computer, la mente viene considerata come uno strumento di manipolazione di simboli e rappresentazioni. Pur essendo interessato a spiegare in termini oggettivi le funzioni mentali, il cognitivismo non affronta direttamente il problema della coscienza che, almeno nelle prime impostazioni, occupa uno spazio minimo nelle teorizzazioni computazionali. L'eccessiva cautela nei riguardi dei resoconti in prima persona dei contenuti di coscienza e dell'introspezione ha infatti, inizialmente, sviato l'interesse degli studiosi di scienze cognitive, ancora convinti dell'impossibilità di studiare ciò che non è direttamente osservabile, verso altre tematiche più specifiche, relative ai sistemi di elaborazione dell'informazione e all'origine del comportamento intelligente, senza porre l'accento sugli aspetti di consapevolezza di questi comportamenti. Addirittura, partendo dalla constatazione che molti dei comportamenti umani possono essere sviluppati senza che il soggetto abbia coscienza dei processi che li determinano, molti autori hanno sostenuto la completa inutilità di riferirsi al concetto di coscienza. Analogamente, alcune correnti di pensiero filosofico, tra cui le varie forme di epifenomenismo, pur riconoscendo la natura fisica e materiale dei fenomeni che darebbero origine alla coscienza sensoriale, la considerano come la risultante delle complesse attivita cerebrali di cui il nostro cervello è capace, ma non le attribuiscono alcuna funzione causale sul comportamento. Anche in questa prospettiva la coscienza sarebbe del tutto inutile per il destino dell'organismo che la possiede, dato che essa non può originare nessuna azione. Da un altro punto di vista, quello del materialismo eliminativista, il concetto di coscienza viene rifiutato poiché la vaghezza delle possibili definizioni del termine «coscienza» e dei suoi derivati suggerisce che non esista nulla che possa essere compreso e spiegato da questi concetti. Una forma particolare di eliminativismo nega del tutto una realtà ontologica alle nostre esperienze fenomeniche (qualia) poiché non si riferirebbero a oggetti esterni, valutabili materialmente, ma a costruzioni interne, una sorta di illusioni costruite dai resoconti soggettivi (Dennett, 1991). Altre posizioni teoriche sostengono l'irriducibilità dei fenomeni mentali a stati fisici suscettibili di studio e conoscenza. Poiché la scienza moderna si è emancipata attraverso le descrizioni del mondo in termini oggettivi e gli aspetti qualitativi della coscienza vengono invece comunicati attraverso i resoconti soggettivi, le metodologie naturalistiche non sarebbero in grado di cogliere gli aspetti fondanti dell'esperienza cosciente che, pur avendo una loro realtà ontologica, rimarrebbero impenetrabili alla validazione scientifica. Se così fosse, sarebbe inutile raccogliere i resoconti dei pazienti che in seguito a danni neurologici hanno delle alterazioni specifiche e focali dei processi di coscienza. E, invece, proprio partendo dalle osservazioni neuropsicologiche che il dibattito sulla coscienza è stato rivitalizzato, contribuendo in epoca recente all'affermarsi dell'approccio neurobiologico. Questo non significa che il problema della legittimità e dei contenuti degli studi sulla coscienza sia stato univocamente risolto. Significa, però, che l'osservazione di casi neurologici, nei quali la lesione cerebrale ha selettivamente alterato alcuni aspetti della consapevolezza, oltre a contribuire a svelare operazioni e strutture del mentale non dimostrabili quando i cervelli funzionano normalmente, ha provocato, per la loro spiegazione, il ricorso a un vocabolario mentalistico che di per sé suggerisce che il concetto di coscienza possa avere un riferimento nel mondo fisico. Lo sviluppo delle neuroscienze è riuscito a spostare l'indagine dal problema ontologico a quello del rapporto tra meccanismi e funzioni della coscienza. Così, anche se spesso il problema della relazione tra neurobiologia e contenuti qualitativi della coscienza non è direttamente affrontato dal paradigma naturalistico (nonostante alcuni autori affrontino il problema dei qualia sensoriali considerandoli riconducibili a trasmissioni e configurazioni neu-rali specifiche), i nuovi approcci allo studio degli aspetti consapevoli del mentale ha avuto il merito di avviare programmi di ricerca euristicamente efficaci per affrontare lo studio della funzione causale della coscienza e delle sue caratteristiche strutturali. Gli psicologi si sono, allora, riavvicinati all'utilizzo dei resoconti esperienziali per studiare gli stati mentali riconoscendo che nella maggior parte dei casi quello che in realtà essi studiano riguarda proprio l'esperienza cosciente delle persone (Marcel e Bisiach, 1988). Inoltre, alcuni particolari fenomeni di alterazione degli stati di consapevolezza, che pur verificandosi nelle persone normali, caratterizzano soprattutto alcune sindromi neuropsicologiche (il cervello diviso, la visione cieca, la negligenza spaziale), hanno incoraggiato gli scienziati a usare il concetto di coscienza, sia in senso descrittivo, che in senso esplicativo, anche se l'utilizzo del termine e lo status del concetto rimangono, nei diversi contributi reperibili nella letteratura specializzata, variabili e spesso contraddittori. Nel nuovo quadro di riferimento teorico appena delineato, il termine coscienza viene spesso usato in modo funzionalista, e quindi considerato equivalente a concetti come attenzione, memoria, linguaggio, meccanismo di controllo. In questi casi i vari autori suggeriscono, più o meno apertamente, la coincidenza della coscienza con una di queste funzioni. Per esempio, la coscienza può coincidere con i meccanismi che elaborano l'informazione a livello del fuoco attenzionale. Ciò che cade nel fuoco attenzionale riceve la migliore elaborazione possibile che determina, a sua volta, un buon controllo sull'esecuzione dell'azione. Secondo altre interpretazioni, la coscienza dipende da ciò che riusciamo a ricordare o a elaborare nell'immediato, ma basandoci sui dati dell'esperienza passata. Per altri ancora la coscienza coincide con la possibilità di interpretazione linguistica (da parte dell'emisfero cerebrale dominante) degli eventi elaborati da moduli sensoriali e cognitivi distribuiti nel cervello. Infine molti autori la considerano un sistema di monitoraggio dello stato di un determinato sistema funzionale. In altri casi il termine coscienza viene usato in riferimento a concetti fenomenologici con chiaro riferimento al vissuto espe-rienziale del soggetto. Addirittura A. Marcel (1988) afferma che se non avessimo esperienza fenomenica non potremmo avere nessun concetto di coscienza, e anche se molti autori rimangono scettici sulla possibilità di attribuire un ruolo causale alla coscienza intesa come esperienza fenomenica, la convinzione che i resoconti in prima persona possano essere accettati come dati viene ora condivisa da molti studiosi. E. Bisiach (1992) arriva a scrivere che il sospetto che la coscienza (qui intesa come esperienza fenomenica) non sia un oggetto legittimo di ricerca scientifica è radicato nel pregiudizio culturale che ci induce a guardare alla fisica come il paradigma scientifico par excellence; ma, se così è, tanto peggio per la fisica, sembra concludere l'autore. Ci sono sicuramente problemi metodologici nello studiare i resoconti soggettivi, ma se si accetta che attraverso di essi si possa arrivare ad avere una presa sul significato dei contenuti dell'esperienza cosciente, allora il lavoro degli scienziati sarà quello di estendere il paradigma della scienza oltre quello della fisica tradizionale. In questa visione lo studio della coscienza, intesa sia in senso funzionalista, che come esperienza fenomenica, è problematico, ma possibile una volta che aggiorniamo e sviluppiamo il modo in cui definiamo la scienza. In questa visione, i resoconti introspettivi sono veri e propri dati cioè variabili indipendenti della ricerca psicologica. E ovvio che bisogna sempre ricordare che vi sono alcuni aspetti dell'esperienza privata unici e non condivisibili, per cui non ci potrà mai essere una scienza di quelle sensazioni soggettive che ci dicono che cosa si prova a essere qualcosa d'altro, per esempio che cosa si prova a essere un pipistrello (Nagel, 1974). Nonostante ciò, appare legittimo utilizzare quelle parti dei resoconti soggettivi, tipici di alcune sindromi neuropsicologiche, per chiarire alcuni aspetti causali della coscienza. Ad esempio, sindromi come il neglect o il blindsight, conseguenti a danno focale delle aree cerebrali parietali e visive, dimostrano come l'assenza di esperienza cosciente di stimoli visivi, che vengono comunque elaborati dal cervello, impedisca al paziente che ne è affetto di utilizzare", per azioni volontarie e finalizzate, quegli stessi stimoli. Uno degli argomenti a favore del dualismo ontologico è che il corpo è divisibile in parti mentre la mente è intrinsecamente indivisibile. In realtà, le scienze neurobiologiche, e in particolare lo studio di pazienti cerebrolesi nei quali è possibile rilevare dei disturbi di coscienza selettivi, hanno dimostrato che la sensazione unitaria che, attraverso l'introspezione, ognuno ha del proprio io è, in parte, un'illusione. Secondo P. Smith-Churchland (1986), E cervello colpito da danni neurologici è in grado di svelare l'inadeguatezza delle dottrine filosofiche che sostengono l'unitarietà dell'Io. Molti dati provenienti dalle neuroscienze suggeriscono, infatti, che sia la coscienza in senso funzionalista, sia l'esperienza fenomenica, non hanno una struttura monolitica e indivisibile, ma una forma composita sostenuta dall'attività di meccanismi cerebrali diversi, probabilmente localizzati in aree cerebrali discrete. E possibile dimostrare che i pazienti cerebrolesi possono elaborare gli stimoli esterni che non percepiscono esplicitamente fino a livelli cognitivi molto elevati. Addirittura il significato di figure e parole non viste, e conseguentemente non percepite o lette, può influenzare a livello semantico le risposte dei soggetti. Questa elaborazione senza consapevolezza è caratteristicamente limitata a un solo canale sensoriale e quindi a una sola modalità di analisi dello stimolo. I pazienti hanno, cioè, un disordine modulare dell'esperienza cosciente che rimane intatta nelle altre modalità di analisi dell'input. Disordini selettivi della consapevolezza possono riguardare anche aspetti di pensiero non legati a una specifica modalità sensoriale, come nel caso dell'anosognosia, in cui i pazienti negano l'esistenza di un danno motorio o sensoriale conseguente al danno cerebrale. Ad esempio, pazienti affetti da emiplegia possono negare, nei resoconti soggettivi, di essere plegici. Anche in questo caso è possibile dimostrare l'esistenza di una conoscenza implicita del disordine motorio se si valuta lo stato del paziente non in modo diretto con il racconto personale, ma in modo indiretto, chiedendogli, per esempio, di dare un voto alla sua capacità di muovere l'arto affetto. Molti pazienti, pur affermando di poter muovere perfettamente l'arto plegico, valutano con voti bassissimi le loro capacità motorie. Le dissociazioni tra presenza di processi cognitivi normali o quasi normali e l'assenza di esperienza cosciente per il prodotto di quei processi, limitata a un solo ambito cognitivo, dimostra che gli stati mentali, anche se dotati di esperienza soggettiva unitaria, sono intrinsecamente separati in differenti correnti di coscienza nel soggetto normale. Questa struttura composita dei processi coscienti viene svelata dalla presenza di lesioni focali che danneggiano selettivamente queste correnti di pensiero. Quale che sarà l'opzione teorica che meglio spiegherà i dettagli della funzione e della struttura della coscienza risulta chiaro che, per quanto suggerito dal paradigma neurobiologico, la coscienza non può essere considerata come prerogativa esclusiva di una componente esecutiva centrale indivisibile e sovraimposta gerarchicamente alle altre funzioni mentali. Piuttosto sembra emergere, dagli studi più recenti, l'idea che la struttura della coscienza abbia caratteristiche modulari che riflettono anche a livello dei processi di pensiero la struttura multidi-mensionale dei processi cognitivi. ANNA BERTI |